24 Aprile 2015
Questa è la vicenda di un piccolo grande uomo, riscoperto meritatamente dopo lungo e scandaloso oblio: a suo modo ha scritto la storia, poiché alla fine dell'800, in tempi cupi di razzismo e pregiudizi nei quali esisteva ancora lo schiavismo, è stato il primo calciatore di colore professionista al mondo. Oggi è normale vedere team e nazionali multietnici: tendenza esplosa negli ultimi trent'anni, prima i neri erano pochi e mal considerati anche nel pallone che conta.
Arthur Wharton era nato il 28 ottobre 1865 a Jamestown, in Costa d'Oro (l'odierna Accra, capitale del Ghana), colonia britannica dopo i precedenti domini portoghese e olandese, centrati sulla tratta degli schiavi e sullo sfruttamento dei giacimenti aurei. Figlio di Henry, missionario metodista scozzese di origini caraibiche, e di Annie Florence, della tribù indigena Fante, di ceto sociale medio-borghese per gli standard di quelle zone, intraprese gli studi religiosi per seguire le orme del padre: a questo scopo si trasferì in Inghilterra nel 1882. Precisamente a Darlington, nel nord-est del Paese, dove scoprì e alimentò la passione per lo sport, favorita dal fisico possente (1.90 per 80 chili).
A tutto tondo: cominciò con l'atletica, disputando le gare ad handicap organizzate per consentire ai possidenti di scommettere, segnalandosi come talento cristallino. Era capace di correre 100 yards in 10 secondi netti: accadde sabato 10 luglio 1886, l'exploit - non isolato: marcò lo stesso crono nelle batterie e nella finale - destò stupore e fu considerato a lungo il record del mondo ufficioso. Nello sprint Wharton fece incetta di vittorie, riconoscimenti e... bizzarrie: al debutto si abbassò per passare sotto il filo teso del traguardo invece di romperlo e fu squalificato dalla giuria. Per i giornali era un fenomeno, anche un po' da baraccone: "Le scarpe marroni che indossava somigliavano così tanto al colore della sua pelle che sembrava corresse a piedi nudi", scrissero. Lo soprannominarono Darkie, era l'uomo più veloce dell'impero britannico.
Wharton in quegli anni praticò ciclismo e ovviamente cricket, in cui s'impegnò, anche professionalmente, fino ai quarant'anni. Ma la sua terra promessa era il campo di calcio. Anzi, i pali: iniziò come portiere del Darlington, da dilettante, nella stagione 1885/86. Non esisteva ancora un regolare campionato, solo tornei locali in cui il ragazzo si fece notare: esordiente, fu subito selezionato per il Newcastle and District Team, la rappresentativa di zona più seguita. Nell'annata seguente passò al Preston North End, ancora come amatore: qui contribuì a portare la squadra - uno dei top team del periodo - in semifinale di Coppa d'Inghilterra, dove fu sconfitta dal West Bromwich per 3-1.
La cosa incredibile è che bigiò la stagione dei trionfi: decise di dedicarsi solo alla corsa proprio nel 1888/89, quando i Gigli Bianchi entrarono nel mito vincendo la prima edizione del neonato campionato inglese e abbinando allo scudetto la coppa sfuggita l'anno precedente, per il primo double della storia. Nell'89 Arthur tornò al pallone, destinazione Rotherham Town: tappa fondamentale, poiché firmò il primo contratto da professionista della sua vita, novità assoluta per un giocatore di colore. Però la squadra disputava le serie locali. Nel 1894 passò allo Sheffield United, chiamato dal manager Tom Bott, già suo mentore e allenatore ai tempi dell'atletica: qui fece la riserva del leggendario William Foulke, soprannominato Fatty per la mole esorbitante. Wharton giocò solo tre partite, ma l'ultima, persa 2-0 col Sunderland grazie anche a una sua papera, gli consentì di esordire in First Division: primo giocatore di sangue misto a schierarsi nel massimo torneo calcistico al mondo.
Nelle stagioni seguenti rimbalzò tra Stalybridge e Ashton, club delle minors afflitti da problemi finanziari. Concluse la carriera in Second Division, nel campionato 1901/02, a 37 anni. Occasionalmente, oltre che in porta, gli capitò anche di giocare all'ala. Ma, al contrario di oggi, era molto più dura fare la guardia alla rete: il regolamento pionieristico consentiva sì al portiere di prendere la palla con le mani in tutta la propria metà campo, ma consentiva anche agli avversari di caricarlo in qualsiasi momento, con o senza giocattolo. Il portiere, quindi, doveva essere un mix tra il calciatore e il lottatore. Wharton si faceva rispettare in entrambe le vesti, e le sue giocate di pugno - a respingere lontano la palla o, se del caso, gli avversari invadenti - divennero proverbiali. Come proverbiale era il suo stile eccentrico: seguiva l'azione accovacciato accanto a uno dei pali, e solo all'ultimo momento prendeva il piazzamento per parare il tiro.
I giornalisti specializzati parlavano di "pugno prodigioso". I tifosi ondeggiavano tra gli aggettivi magnifico, superbo e incredibile. Scrisse un columnist nel 1887 sul The Athletic Journal: "Molti pensano che se Wharton gioca al suo livello migliorino le probabilità del Preston di vincere la coppa. Io sono della stessa opinione: su questo darkie si ironizza troppo, dicendo che tra i pali non c'è posto per un'allodola. Sciocchezze: si chiama freddezza". Aggiunse un altro cronista sullo Sheffield Telegraph nel 1942: "In un match tra Rotherham e Sheffield vidi Wharton saltare, aggrapparsi alla traversa, prendersi la palla tra le gambe e schivare tre attaccanti avversari, che accorrendo alla carica mancarono l'impatto e rotolarono nella rete. Non ho mai visto un simile salvataggio in 50 anni di calcio".
Osteggiato da molti benpensanti e dallo strisciante pensiero razzista, naturale che diventasse un idolo delle comunità di immigrati neri: Arthur era adulato, fu additato a eroe dell'umile classe operaia del nord, che lo adottò nonostante il background di benestante ghanese. Come qualsiasi altra persona di colore, Wharton soffrì il razzismo, ma non fece la vittima passiva: è documentato che nel suo piccolo combatté per una società più giusta, con orgoglio e senza arroganza.
La carriera calcistica però non giovò al suo futuro: abbandonata precocemente la strada della predicazione religiosa, gli fu rifiutato un lavoro nell'amministrazione coloniale, poiché il calcio non era ancora considerato di alto livello sociale. Per guadagnarsi (quasi) da vivere dovette dedicarsi al durissimo lavoro nelle miniere del South Yorkshire. Morì a 67 anni, senza un soldo, in un piccolo ospedale di provincia nel dicembre 1930. Fu seppellito in una tomba senza nome in un prato di Edlington. Sepolcro rimasto incurato per troppi anni: solo nel 1997, dopo una raccolta fondi che coinvolse molti odierni giocatori di colore della Premiership - che al coraggio di Wharton devono almeno un briciolo della fama e dei denari accumulati - venne finalmente apposta la lapide.
Fu l'occasione per riscoprire questo eroe dimenticato: nel 2003 fu inserito nella English Football Hall of Fame. E la fondazione a lui intitolata, creata nel 2010 avvalendosi come testimonial nientemeno che di Stevie Wonder, si occupa di educare all'uguaglianza tra gli uomini e di promuovere il dialogo tra i popoli, ricordando come Arthur più di un secolo prima avesse infranto le certezze dei sostenitori della supremazia bianca, con la sua educazione e la sua capacità sportiva, confutandone le teorie razziste. Il seme gettato alla fine dell'800 dall'immigrato ghanese è germogliato anche nella sua città adottiva: non a caso Sheffield è stata la culla della fondazione Furd (Football Unites Racism Divides), che si batte contro i pregiudizi razziali nello sport e nel mondo.
Lo scorso ottobre, nel parco del centro tecnico federale inglese (la Coverciano della FA), è stata inaugurata una statua che immortala il famoso pugno implacabile di Arthur Wharton mentre devia plasticamente la palla sopra la traversa: una miniatura dell'opera è stata donata al museo della Fifa. Arthur Wharton ha vinto più post mortem che in campo, ma questa è la cifra dei personaggi che cambiano la storia.