Storie, ministorie e controstorie dei rimbalzi del pallone
14 Maggio 2015
In Germania Est negli anni della guerra fredda il calcio non era altamente considerato come nel resto del blocco sovietico. Lo sport era una scusa per promuovere del regime, certo: ma si privilegiavano le discipline olimpiche, poiché portavano medaglie e gloria a un piccolo Paese che, grazie al doping di stato, banchettava al tavolo delle superpotenze, contendendo podi e medagliere più prestigiosi alle immense Usa e Urss.
Il campionato tedesco orientale era poca cosa, per di più pilotato dai vertici politici. Il capo della Stasi Erich Mielke tifava per la Dinamo Berlino e non si faceva scrupolo di manipolare qualunque situazione - partite, arbitri, società, mercato - per favorire i propri protetti. I club cambiavano nomi e sedi dalla sera alla mattina, i risultati si aggiustavano a piacimento: si giunse a trasferire in blocco, forzosamente e nottetempo a mo' di vero e proprio rapimento, una squadra poco potente ma troppo vincente. Le ingerenze politiche tolsero interesse al torneo, allontanarono i tifosi - tanto sapevano già come sarebbe andata a finire - e fecero della nazionale l'unica rappresentante credibile del pallone al di là del Muro.
Nazionale che però, se brillava a livello giovanile (la scuola era interessante) e olimpico (lo status dilettantistico ufficiale consentiva di schierare i giocatori migliori, cosa che non avveniva per i Paesi occidentali), a livello senior partecipò a una sola grande competizione: il Mondiale del '74 in Germania Ovest, nella cui prima fase batté clamorosamente i cugini ad Amburgo nell'unico derby tra rappresentative maggiori della storia. Il famoso gol di Sparwasser fu il punto più alto di una parabola modesta: a molti tedeschi orientali non piacque, poiché sapevano che quel successo sarebbe servito alla propaganda di regime; mentre ai tedeschi occidentali non dispiacque, poiché molto più bassamente consentì loro di evitare l'Olanda nella seconda fase, e di spianarsi la strada verso il titolo.
Come tutti gli altri settori della vita civile, anche il calcio - che comunque nella Ddr garantiva ai suoi interpreti un tenore di vita elevato rispetto alla gente comune - soffrì la diaspora dei fuggitivi verso la libertà. Di solito sfruttavano le trasferte estere per eludere la sorveglianza di agenti più o meno segreti, mandati come cagnacci da guardia al seguito delle comitive. Ecco alcuni casi emblematici e spesso tragici: fare marameo alla Stasi esponeva a sanguinose vendette, pure trasversali e ritardate nel tempo.
Jurgen Sparwasser. Proprio lui, l'eroe nazionale, l'uomo che batté l'altra Germania. Classe 1948, stella del Magdeburgo, unico club della Ddr a vincere un trofeo europeo (la Coppa delle Coppe 1974: 2-0 al Milan a Rotterdam). L'uomo che scornò i cugini nella partita del secolo: contropiede, lancio lunghissimo di Kurbjuweit, taglio perentorio dell'attaccante che addomesticò palla più di faccia che di testa, confuse Vogts e Hottges e batté Maier. Quella sera indossava il 14 come Cruijff, firmò un clamoroso punto di svolta della sua generazione: "Tutti, noi compresi, alla vigilia pensavano che ci avrebbero seppelliti di gol - ha raccontato poi - Noi non eravamo campioni, bensì scarti di altre discipline; e non avevamo tattica, facevamo catenaccio. Loro erano star internazionali, ricche e predestinate: al confronto, eravamo onesti somari". Una volta smesso di giocare, Jurgen Sparwasser si mise a insegnare pedagogia dello sport, ma rifiutò per tre volte di allenare il Magdeburgo e le autorità gliela fecero pagare: "Mi mancavano 25 anni alla pensione - spiegò - preferivo fare altro". Fu ostracizzato: nel 1988 colse al volo la chance di un permesso di espatrio accordato alla moglie, le si aggregò e fuggì a Ovest. Il regime - comicamente geloso delle star che creava e distruggeva secondo le lune - la prese malissimo: "No, Spari no!". Sparwasser, oggi, scrive libri didattici sul calcio, ha un'accademia giovanile e collabora con la scuola calcio dell'ex campione tedesco occidentale Charly Korbel.
Lutz Eigendorf. Il caso più drammatico. Talento purissimo della Dinamo Berlino, considerato la risposta orientale a Beckenbauer: classe 1956, faccia triste come se presagisse il destino avverso. Coccolato e guardato a vista dal regime di Honecker, che conta di farne un buon testimonial. Il 19 marzo 1979 va a Kaiserslautern a giocare un'amichevole, che la Dinamo perde 4-1. Sulla via del ritorno il bus della squadra fa scalo a Giessen per lo shopping: Lutz riesce a imbucarsi tra la folla, zompa su un taxi e scappa. A Berlino lascia moglie e figlia, che non sanno nulla del tentativo di fuga, forse improvvisato lì per lì. Il Kaiserslautern lo ingaggia, ma la Fifa - che coi governi autoritari ha sempre intrattenuto rapporti cordiali - lo squalifica per un anno. Quando torna in campo, Eigendorf ha smarrito la cazzimma: dopo due stagioni deludenti col Lautern viene ceduto all'Eintracht Braunschweig. Nel frattempo si è risposato, poiché la famiglia lasciata in patria ha ceduto alle lusinghe degli agenti della Stasi: l'ex moglie ha accettato la corte di uno dei tanti "Romeo" al soldo del regime, che ha persino adottato la figlia. Complice un infortunio, gioca poco nella stagione 1982/83. Lo pedina una cinquantina di 007 orientali, incaricati da Mielke di escogitare la tremenda vendetta. Commette un errore fatale: il 21 febbraio 1983 a Berlino Ovest, proprio di fronte al Muro, registra un'intervista televisiva in cui magnifica l'occidente e mette all'angolo i metodi della Germania Est. Pochi giorni più tardi, il 5 marzo, alle undici e mezza di sera, si schianta con l'auto. Muore dopo due giorni di agonia: l'incidente viene frettolosamente archiviato alla voce guida in stato di ebbrezza, ma i testimoni delle sue ultime ore dicono che non ha bevuto più di due birre, men che uno stuzzichino per un tedesco doc. Anni dopo, a Muro caduto e archivi della Stasi declassificati, spunta la verità: Eigendorf è stato intontito ad arte con varie sostanze allucinogene dagli emissari della Ddr, messo al volante e infine abbagliato da un'auto mandata apposta a incrociarlo.
Norbert Nachtweih. Il meno famoso, quello che ha vinto di più. Classe 1957, difensore esterno di discreta levatura, cresciuto nel Chemie Halle, ha 19 anni quando si dilegua durante l'ennesima trasferta galeotta: è il 16 novembre 1976, la Ddr Under 21 gioca in Turchia il primo match di qualificazione agli Europei di categoria. Lui scappa dall'albergo di Bursa insieme al compagno Jurgen Pahl, raggiungono Istanbul e chiedono asilo: le autorità turche e il consolato tedesco li fanno viaggiare verso Monaco. Dopo l'altrettanto consueto anno di castigo Fifa, debuttano in Bundesliga con l'Eintracht Francoforte: vincono la Coppa Uefa del 1980 e la Coppa di Germania dell'81. Nel 1982 Nachtweih passa al Bayern Monaco: in 7 stagioni conquista 4 Meisterschale, 2 Coppe di Germania e perde la finale di Coppa dei Campioni 1987 a Vienna col Porto. Una breve parentesi in Francia (Cannes), poi tramonto tra Eintracht e Mannheim. Oggi allena le giovanili a Francoforte. Pahl, portiere, ha chiuso la parabola agonistica in Turchia (Rizespor) e oggi vive in Paraguay, dove gestisce un ristorante tipico turco a base di kebab.
Jorg Berger. Sarebbe una bella storia, se avesse avuto il lieto fine. Costretto al precoce ritiro dal calcio giocato per un grave infortunio muscolare, designato dai vertici federali come erede del santone Georg Buschner, è selezionatore della nazionale Under 21 tedesca orientale quando sceglie la libertà. Succede il 26 marzo 1979, appena una settimana dopo il clamoroso caso Eigendorf. Da tempo la federcalcio dell'Est gli vieta le trasferte perché Berger, dopo il divorzio dalla moglie consumato nel 1976, non avendo più affetti in patria è considerato un potenziale disertore: però quella volta lo lascia volare con la squadra a Subotica, per la partita con la Jugoslavia. Berger compra di nascosto un biglietto del treno per Belgrado e alle 4.30 del mattino sgattaiola dall'albergo per inseguire un futuro diverso. Quando il convoglio è alla periferia della capitale e rallenta, nei pressi dello scalo merci, il fuggiasco salta giù e raggiunge l'ambasciata della Germania Ovest: "Mostrai i documenti e dissi: sono un cittadino della Ddr. Loro li guardarono e mi risposero: no, lei è un cittadino tedesco. Ebbi un brivido: nessuno mi aveva mai detto così", ha scritto nell'autobiografia pubblicata nel 2009. Espatria con generalità false, ma la notizia della fuga si è sparsa e alla dogana austriaca le guardie di confine jugoslave lo riconoscono: lo interrogano, lo fanno sudare e penare, ma alla fine lo lasciano uscire. Stabilitosi in Germania Ovest, rischia la fine di Eigendorf: la Stasi gli manomette più volte l'auto. Nel 1986, mentre allena l'Hannover in Bundesliga, accusa strani malesseri: li attribuisce allo stress, i medici scoprono che si tratta di avvelenamento da piombo e arsenico, sempre opera degli indefessi agenti orientali. Anni dopo, negli archivi della Stasi, scopre che erano almeno 21 le spie insospettabili che lo curavano: tra queste un caro amico e il ct della Ddr maggiore Bernd Stange, suo vecchio mentore, che lo contattava a ogni puntata in occidente. Berger, personaggio di dirompente carisma, è una specie di Carletto Mazzone che gira molte panchine, si specializza in salvezze impossibili (lo soprannominano Pompiere perché spegne qualunque incendio), issa al terzo posto squadre normali come Eintracht e Schalke, viene minacciato di morte per gli scarsi risultati nel breve periodo turco al Bursaspor. Il capolavoro, e l'ultima impresa, nel 2004: conduce un team di seconda divisione, l'Alemannia Aachen, alla finale di Coppa di Germania, persa 3-2 col Werder Brema. Già minacciato dal cancro, muore nel 2013.
Falko Goetz. Forse l'unico a lasciare la Ddr senza subire gravi conseguenze personali. Stella della Dinamo Berlino, diserta il 2 novembre 1983 insieme al compagno Dick Schlegel: anche loro a Belgrado, prima del match di Coppa Campioni col Partizan. Prendono un taxi, vanno all'ambasciata, emigrano in Germania Ovest e, dopo il bando annuale imposto dalla Fifa, tornano in campo. Goetz diventa un punto fermo del Bayer Leverkusen e firma un gol nel clamoroso 3-0 con cui le aspirine restituiscono pari pari la sconfitta dell'andata all'Espanol Barcellona nella finale di Coppa Uefa: il trofeo viene poi vinto dai tedeschi ai rigori. Gioca per Colonia, Galatasaray, Saarbrucken e Hertha, in una Berlino ormai unificata. Diventa allenatore, senza troppe fortune e pure con una parentesi esotica in Vietnam.
Helmut Schoen. Il Merkel del calcio tedesco, padre della patria pallonara, patriarca di dilagante personalità, ct della nazionale dell'Ovest dal 1964 al 1978. Nato a Dresda, calciatore e nazionale del Reich a fine anni '30, ha fatto il gran salto nel 1950 per allenare l'Hertha Berlino. Un trasloco incruento, alla luce del sole, perché il Muro non c'era ancora e i berlinesi dell'Est potevano tranquillamente recarsi dall'altra parte per lavorare. Ma un trasloco dettato anche dalle pantomime viste nel campionato 1949/50, deciso all'ultima giornata dallo scontro diretto tra il suo Friedrichstadt e l'Horch Zwickau, appaiate al comando: 5-1 per gli ospiti grazie a un arbitraggio indecente. "Ragazzi, meglio andare a Ovest", disse alla squadra dopo quello scippo organizzato dall'alto. Lui lo fece e divenne una leggenda. C'era Schoen sulla panchina occidentale nel derby perso nel '74, ma anche nel successivo trionfo mondiale sull'Olanda. Morto nel 1996, rimane un paradigma di riferimento per chi transita sulla panchina tedesca.