Storie, ministorie e controstorie dei rimbalzi del pallone
11 Giugno 2015
Il calcio africano è esploso di recente a livello globale, ma non è vero che in precedenza tutto fosse primitivo. Nella regione magrebina in particolare, quella più influenzata dalla cultura europea, fin dalla metà del '900 si sono affermati campioni di vaglia, molti dei quali già in quel periodo vennero a militare nei club dell'altra sponda del Mediterraneo: per lo più francesi, visto che quasi tutta l'Africa sahariana apparteneva - con lo status di colonia o di protettorato - all'impero coloniale transalpino.
Il primo a calcare i campi di vertice fu Raoul Diagne, figlio di quel Blaise che, immigrato senegalese, nel 1914 era stato il primo parlamentare francese di origine africana. Blaise Diagne abbatté un muro, ma il suo attivismo per i diritti umani nelle colonie gli costò l'esilio - camuffato con incarichi diplomatici - in territori d'oltremare scomodi come Madagascar e Guyana Francese. Raoul, classe 1910, difensore centrale roccioso, negli anni Trenta col Racing Parigi vinse scudetti e coppe, e fu il primo giocatore di colore convocato nella Francia: disputò 18 partite in nazionale e giocò titolare nel Mondiale casalingo del 1938.
L'ingresso degli africani nella rappresentativa nazionale era sbandierato come la dimostrazione dell'integrazione dei figli delle colonie. In realtà in quel periodo il calcio in Francia era uno sport di secondo piano, relegato in un cantuccio dalla fama di rugbysti e ciclisti, tra i quali non vi erano assolutamente atleti di colore. Palla ovale e bicicletta erano percepite come simboli dell'identità francese: il pallone no, o non ancora.
Ma il più famoso e talentuoso tra i pionieri africani nel professionismo europeo fu il marocchino Haj Abdelkader Larbi Ben Barek. Nato in un quartiere povero di Casablanca, forse nel 1914 o forse nel '17 (la data è dubbia: pare che lui stesso si fosse tolto tre anni dai documenti), sbarcò a Marsiglia il 28 giugno 1938: a differenza di (quasi) tutti gli altri, non per sfuggire alla povertà o per studiare, ma segnatamente per giocare a calcio, visto che aveva firmato un contratto in piena regola. Centrocampista offensivo di classe, si era messo in luce con l'Union Sportive Marocaine, la squadra allora più prestigiosa del Paese, e nell'aprile 1937 aveva intrigato gli osservatori francesi trascinando una selezione marocchina in un'amichevole con la Francia B. L'Olympique Marsiglia acquistò la giovane promessa per 44.000 franchi, gratificandola di uno stipendio cinque volte superiore a quanto guadagnava in patria, prima come falegname e poi come tecnico della compagnia del gas. Nel dettaglio: 2.000 franchi fissi al mese, più 125 franchi a presenza, 150 per ogni partita vinta e 75 per ogni pareggio.
Ben Barek era giovane ma all'esordio stupì già tutti: alla prima giornata firmò una doppietta contro il Racing Parigi e in capo a quattro mesi venne prontamente naturalizzato, guadagnando la prima chiamata con i Bleus per l'amichevole di Napoli contro l'Italia campione del mondo, persa 1-0. Il pubblico partenopeo lo fischiò sonoramente, lui reagì cantando a squarciagola la Marsigliese e anche per questo gli sciovinisti francesi si affiancarono agli appassionati di calcio eleggendolo a loro idolo. Lo chiamarono Perla Nera, come più tardi Pelé, per sottolinearne l'eleganza dei gesti, il dribbling ubriacante con finte in serie e la perentorietà dei colpi: anzi, si dice che Pelé abbia avuto lo stesso soprannome proprio per l'ammirazione che nutriva per Ben Barek. Il fuoriclasse brasiliano un giorno disse: "Se io sono il re del calcio, allora Ben Barek ne è il dio".
In breve divenne un autentico fenomeno mediatico, amato e rispettato: L'Equipe gli dedicò persino la copertina a tutta pagina. Durante la seconda guerra mondiale riparò in Marocco, per vincere altri titoli con il vecchio club, e nel 1946 si trasferì a Parigi per giocare con lo Stade Français. Il suo nome finì su tutti i giornali a caratteri cubitali nell'estate del 1948, quando fu al centro di un clamoroso caso di mercato: l'Atletico Madrid, appena issatosi al vertice del calcio spagnolo dopo un lungo anonimato, lo acquistò per la cifra record di un milione di pesetas, pari a 17 milioni di franchi. La piazza parigina non la prese bene: un celebre columnist scrisse "vendete l'Arco di Trionfo o la Tour Eiffel, non Ben Barek". Fu la prima vera grande operazione di mercato internazionale della storia, per di più verso un Paese, la Spagna franchista, isolato e xenofobo. Ma Ben Barek non si fece spaventare dai pregiudizi, tirò dritto e il sensazionale investimento fruttò: nel quinquennio con i colchoneros il franco-marocchino vinse due scudetti e una Coppa del Re agli ordini di un allenatore che avrebbe scritto la storia, Helenio Herrera.
Concluse la carriera nel 1954, dopo essere tornato a Marsiglia per chiudere il fortunato cerchio: l'ultima partita ufficiale fu la finale di Coppa di Francia persa 2-1 col Nizza il 4 maggio a Colombes. La passerella finale fu addirittura doppia: il 7 ottobre vestì la maglia della rappresentativa dell'Africa del Nord contro la Francia al Parco dei Principi, in un test vinto 3-2, e quel giorno giocò talmente bene che l'opinione pubblica reclamò l'ultima convocazione con i Bleus. Così fu scritturato per l'amichevole Germania-Francia del 16 ottobre ad Hannover: ma rimase in campo appena 27 minuti per un infortunio muscolare.
Tornato a casa in Marocco con l'aura di una leggenda, lavorò per svariate squadre di club e fu il primo ct della nazionale dopo l'indipendenza. Ma quando morì, nel 1992 a Casablanca, era solo, povero e in disgrazia. Il suo corpo fu trovato una settimana dopo il decesso. L'8 giugno 1998, alla vigilia del Mondiale di Francia, la Fifa ha attribuito alla memoria di Larbi Ben Barek la sua massima onorificenza.
Guarda un documentario su Ben Barek
Guarda la doppietta di Ben barek nel derby Real Madrid-Atletico Madrid 3-6 del 12 novembre 1950