Storie, ministorie e controstorie dei rimbalzi del pallone
18 Giugno 2015
Più o meno ovunque, anche nei Paesi poveri, i calciatori sono tra i cittadini più invidiati, pagati e benestanti. Persino ovvio che siano finiti nel mirino di ladri e banditi, animati da poco tifo e molta cupidigia. In particolare, sono diversi nella storia i casi di calciatori anche celebri rapiti, a scopo di estorsione o di pubblicità. E non si contano i sequestri di loro parenti, a volte purtroppo finiti in tragedia. Ecco gli episodi più clamorosi.
Il nome di maggior richiamo è senz'altro quello di Alfredo Di Stefano, stella del Real Madrid di origine argentina. Nell'estate del 1963 i Blancos volarono in Venezuela per disputare la Pequena Copa del Mundo, un torneo a inviti di cui erano habituè. In quell'edizione, il triangolare opponeva gli spagnoli ai brasiliani del San Paolo e ai portoghesi del Porto. Nella notte tra venerdì 23 e sabato 24 luglio fece irruzione nell'albergo della squadra, il Potomac di Caracas, una banda di guerriglieri del Faln (Forza armata di liberazione nazionale), organizzazione clandestina di estrema sinistra che combatteva il governo autoritario di Romulo Betancourt con atti eversivi e attentati in tutto il Paese. Il commando era guidato da un ragazzo, il 19enne Maximo Canales, conosciuto anche come Paul del Rio, pittore e scultore piuttosto quotato che a tempo perso faceva il rivoluzionario: il nome in codice dell'operazione era "Julian Grimau", omaggio a un militante comunista spagnolo, condannato a morte e ucciso il 20 aprile di quello stesso anno a Madrid da un tribunale franchista dopo un processo-farsa. Lo stesso Canales era figlio di profughi repubblicani spagnoli.
Gli altri giocatori erano in giro per la città, a godersi la movida: in albergo era rimasto solo Di Stefano, che soffriva il clima tropicale, e per questo aveva saltato il match col San Paolo. I rapitori si spacciarono per agenti della narcotici e gli chiesero di seguirli per un controllo di routine. Lui lo fece di buon grado, ma una volta in auto il copione mutò: "Venni bendato, portato via e rinchiuso in una stanza, non so dove", raccontò poi il fuoriclasse. "Lo rapimmo perché era famoso nel mondo - disse molti anni dopo Canales - pensammo che quell'azione avrebbe avuto una vasta eco, aiutandoci a perseguire i nostri obiettivi. La sua squadra venne per un torneo amichevole e, cinicamente, a lui mostrammo il cartellino rosso alle sei del mattino". La polizia era convinta che sarebbe stato lasciato allo stadio, dove domenica 25 era in calendario Real Madrid-Porto, e mandò truppe speciali. La moglie lanciò un drammatico appello via radio perché i rapitori lo liberassero e non gli facessero del male. L'obiettivo era raggiunto: tutto il mondo stava scoprendo la causa del Faln.
"Sulle prime ebbi paura - ha scritto Di Stefano nella sua autobiografia - temetti che mi avrebbero ucciso: poi capii che non mi avrebbero torto un solo capello. Mi spiegarono che volevano solo far parlare di sé l'opinione pubblica, visto che il governo impediva ai giornali anche solo di citarli. Il comandante del gruppo ribelle, Maximo Canales, rimase con me tutto il tempo del sequestro, scusandosi mille volte per quello che definiva un inconveniente. Ero preoccupato per l'angoscia che la situazione stava causando a mia moglie e a mio figlio di otto anni. Passammo il tempo giocando a scacchi, a domino e a carte: con me si comportarono da caballeros. Il giorno dopo mi fecero ascoltare la partita alla radio. Poi mi caricarono in auto e mi liberarono, ancora bendato, sulla Avenida Libertador, nei pressi dell'ambasciata spagnola, che raggiunsi in taxi". Il rapimento durò 56 ore, la prigione fu allestita in un appartamento del quartiere El Silencio, la polizia non ci arrivò perché - spiegò Canales - vi si erano infiltrati diversi uomini del Faln. Non fu richiesto né pagato alcun riscatto. Di Stefano si riunì ai compagni, il mondo tirò un sospiro di sollievo: il 28 agosto, due giorni dopo il rilascio, la folla lo accolse con un'ovazione quando entrò in campo da titolare nell'ultima gara del torneo, lo 0-0 col San Paolo che decretò la vittoria dei brasiliani. Di Stefano e Canales-del Rio si sono reincontrati nel 2005, sul set del film sulla storia del Real Madrid.
Di tutt'altro tenore la disavventura capitata nel 1981 a Enrique Castro Gonzalez, per tutti Quini, centravanti e stella di prima grandezza del Barcellona e della nazionale spagnola. Nel pomeriggio di domenica 1° marzo i blaugrana battono 6-0 l'Hercules Alicante al Camp Nou, Quini - in corsa per il titolo di capocannoniere della Liga - ne fa due e poi corre all'aeroporto a recuperare moglie e figli, in arrivo da Oviedo. Il campionato è nella fase decisiva: in testa c'è l'Atletico Madrid con 37 punti, il Barça segue a 35 e, allenato dal redivivo Helenio Herrera, sta recuperando alla grande dopo un inizio negativo. La domenica dopo c'è lo scontro diretto al Vicente Calderon.
Quini all'aeroporto non ci arriva mai: l'indomani mattina ritrovano la sua auto a pochi metri da casa, con la portiera aperta e le chiavi nel quadro. Il campione si è letteralmente volatilizzato. Un vicino racconta di averlo visto, pochi minuti prima delle 21, parlottare con tre sconosciuti. Un rapimento: la notizia fa il giro della Spagna e lascia sgomenti, tanto più che, in tempi di quotidiano terrorismo - soprattutto basco, con decine di vittime ogni anno: il 1980 è stato il più insanguinato, con 93 morti firmati dall'Eta - di fronte a certi soggetti non c'è proprio da scherzare.
In realtà l'Eta stavolta non c'entra, e nemmeno l'omologa galassia neofascista Grapo. Alle 17, l'ora delle corride, spunta un comunicato del sedicente Batallon Catalano Espanol, un'organizzazione semisconosciuta di estrema destra che rivendica il rapimento, ne spiega l'assurdo motivo ("Gioca per una squadra separatista, non vogliamo che vinca lo scudetto e che sia in campo con l'Atletico") e ne annuncia il rilascio per l'11 marzo. Poche ore dopo, con la classica telefonata a un giornale, un altro gruppo eversivo chiede al Barcellona 350 milioni di pesetas di riscatto. Nella notte viene ritrovato in una cabina telefonica un messaggio scritto di Quini: dice che sta bene e tranquillizza i congiunti.
Il Barcellona ha una reazione orgogliosa: con una mano cerca la trattativa coi rapitori, con l'altra rifiuta di rinviare il big match. L'8 marzo un gol di Marcos Alonso è sufficiente all'Atletico per vincere lo scontro al vertice: al ritorno, la squadra è accolta all'aeroporto El Prat da migliaia di persone che gridano "Quini libertad". L'11 marzo, però, Quini non torna a casa. Le indagini si orientano verso la criminalità comune, non di matrice politica e tantomeno terroristica. I giorni passano, l'opinione pubblica è in fermento, i giornalisti si accampano a casa del giocatore, il mondo - non solo del pallone - è commosso e in apprensione: i contatti tra la famiglia e i rapitori sono pressoché quotidiani, il che consente agli inquirenti di intercettare le telefonate e di farsi un'idea dei misteriosi interlocutori, che si dimostrano via via sempre più agitati. La persona designata a parlare al telefono coi rapitori è un amico e compagno di squadra di forte carisma, José Ramon Alexanko. Intanto il Barça, travolto dalla tensione, entra in crisi e perde irrimediabilmente terreno nella corsa al titolo: se davvero era questo l'obiettivo dei banditi, è pienamente raggiunto.
Il 13 marzo va a vuoto un contatto con un industriale di Saragozza come intermediario. Il 20 la somma infine concordata come riscatto, 100 milioni di pesetas, viene traslata dal Barça attraverso una banca svizzera, su istruzioni dei banditi. L'incubo finisce mercoledì 25 marzo: la Guardia Civil fa irruzione nello scantinato di un'officina meccanica di Saragozza e trova il centravanti asturiano con uno dei tre carcerieri. Le immagini del trionfale ritorno a Barcellona di Quini fanno il giro dei giornali e delle tv di tutto il globo: provato, dimagrito e piangente, abbraccia la moglie e la indica come "la vera eroina di questa storia". Torna subito in campo, ma gli ci vuole un po' per ritrovare la condizione: "Chiedo scusa ai tifosi se ho giocato male", dice con incredibile umiltà dopo l'opaco rientro, il 5 aprile contro il Valladolid. Vince ugualmente il pichichi con 20 gol, uno in più del madridista Juanito. E segna la doppietta decisiva nella finale di Coppa de Re, vinta 3-1 dai blaugrana sullo Sporting Gijon.
E i rapitori? Si tratta di tre sbandati di Saragozza, ex colleghi nell'officina meccanica di cui sopra, senza precedenti penali. Un profilo basso, persino banale, che gli inquirenti avevano indovinato in fretta, soprattutto per l'inequivocabile accento aragonese. Victor Manuel Diaz Esteban, 26 anni, il titolare del conto svizzero, è la chiave della soluzione del giallo: intercettato a Ginevra con parte dei soldi, confessa e indica il luogo di detenzione dell'ostaggio. Fernando Martin Pellejero Brun, 28enne elettricista, è colui che ogni giorno telefona ai familiari, mettendo involontariamente la polizia sulla pista giusta. José Eduardo Sandino Tejela, coetaneo di Diaz, è l'intestatario del furgone usato per il rapimento e del seminterrato affittato per la prigionia. Hanno autofinanziato il piano investendo i propri risparmi, 250.000 pesetas. Confessano di aver finito presto i soldi e perciò di aver pensato alla liberazione, ma di non aver saputo gestire la situazione: dilettanti allo sbaraglio, criminali improvvisati. Quini, anche durante il processo, li definisce "simpatici e non cattivi": il 15 gennaio 1982 vengono condannati a dieci anni di carcere e 5 milioni di pesetas di risarcimento al giocatore, che però rifiuta il denaro.
Allucinante la vicenda del brasiliano Bernardo Vieira de Souza, centrocampista del Vasco da Gama, rapito a soli 22 anni il 21 aprile 2013 a Rio de Janeiro. La sua colpa non è né lo status di calciatore, né le ricchezza che ne deriva. No: la sua colpa è frequentare Dayana Rodrigues, amica intima di Marcelo Santos, nome di battaglia Menor P, capo di una delle maggiori gang di trafficanti di droga della zona.
Quella sera gli sgherri del boss prelevano lui e la ragazza, li portano in un covo situato in un luogo appartato, li picchiano. Poi, giusto perché la lezione sia ricordata a lungo, torturano il calciatore con scosse elettriche alle gambe, lo strumento di lavoro quotidiano, e sparano alle gambe di lei per punirla della scappatella. Bernardo viene abbandonato, ferito in maniera non grave, sull'uscio di un ospedale.
Il fatto che Bernardo se la cavi più con lo spavento che con danni fisici fa storcere il naso agli osservatori: si scoprirà poi che due colleghi e amici del calciatore, Wellington Silva del Fluminense e Charles del Palmeiras, si sono recati in ambasciata dal boss e hanno fatto da tramite, riuscendo a ottenerne il rilascio e la salvezza. Dayana Rodrigues ne esce malconcia ma viva, pure con un surplus di popolarità: e in una delle immagini succinte che circolano sul web, pluricliccate, indossa un bikini griffato coi simboli del Flamengo, uno dei principali rivali del Vasco...
Poi ci sono i sequestri tentati e non riusciti. Due casi su tutti, ciascuno clamoroso per bersaglio e modalità. Johan Cruijff, mito assoluto del livello di Di Stefano: rifiutò la convocazione per il Mundial '78 in Argentina e non si è mai saputo esattamente il perché. Chi propese per il boicottaggio del regime sanguinario dei generali, chi per un bisticcio con la federcalcio olandese per le solite questioni economiche, a cui era sempre piuttosto sensibile. Niente di tutto questo: trent'anni dopo Cruijff ha rivelato che alla fine del 1977 lui e la sua famiglia furono vittime di un tentativo di sequestro nella loro abitazione di Barcellona. "Una notte alcuni banditi entrarono in casa nostra e ci immobilizzarono legandoci le mani. Puntarono un fucile in testa a me e a mia moglie Danny davanti ai nostri tre figli".
Il tentativo di rapimento fu sventato, ma l'episodio condizionò la quotidianità del fuoriclasse: "I bambini andavano a scuola scortati dalla polizia, degli agenti dormirono con noi per diverso tempo. Le minacce continuavano, sarei partito con una guardia del corpo al seguito: capii che c'erano valori più importanti, che tutto questo non era giusto. Perciò decisi di rimanere a casa e stare accanto ai miei familiari, invece di allontanarmi due mesi per il campionato del mondo. Il calcio, in quel momento, non m'interessava". A fine stagione, scosso dalla vicenda, lasciò Barcellona e si trasferì negli Usa. L'Olanda perse la finale e recriminò per l'assenza del suo fuoriclasse.
E poi Michel Hidalgo, ct della Francia dell'era Platini. Gli accadde un fatto strano, mai chiarito del tutto, proprio alla vigilia degli stessi Mondiali 1978 che Cruijff bigiò. Hidalgo abitava a Saint-Savin, un piccolo paese a nord di Bordeaux: giovedì 23 maggio, giorno del raduno della comitiva francese per volare in Argentina, partì da casa in auto insieme alla moglie Monique per raggiungere la stazione di Bordeaux, dove lo aspettava il treno per Parigi. Qui si sarebbe ricongiunto al resto della spedizione, che si sarebbe imbarcata sul Concorde con destinazione Baires dopo uno scalo a Dakar. Mentre viaggiavano in una strada di periferia, gli Hidalgo vennero affiancati e superati da un'altra vettura, che li costrinse a fermarsi. Da quella macchina zomparono fuori due sconosciuti, stranieri, che spianarono le pistole e intimarono alla coppia di scendere.
Raccontò poi Hidalgo alla polizia e alla stampa: "Uno di loro mi ha ordinato di andare con lui in un boschetto poco distante. Nel frattempo l'altro ha preso il mio posto al volante, accanto a mia moglie. Dopo 15-20 metri ho sentito la canna della pistola alla schiena e ho pensato di non avere molto da vivere. Ho deciso di rischiare: mi sono girato di scatto, ho afferrato la pistola per la canna e l'ho fatta cadere a terra. A quel punto i due stranieri sono tornati nella loro auto e sono fuggiti. Prima avevano detto solo poche parole: gli avevo chiesto cosa volessero da me, avevano risposto una passeggiata nel bosco".
Hidalgo si recò al posto di polizia più vicino e denunciò i fatti. I gendarmi esaminarono la pistola, che risultò scarica. La notizia si sparse e scosse la Francia. Il ct confessò più tardi: "Lì per lì mi domandai se in qualche modo lo sport c'entrasse con tutto questo, e pensai che non avesse senso andare a giocare il campionato del mondo. Poi decisi che lo sport doveva vincere e insegnare, così raggiunsi la squadra: il nostro compito era lanciare un messaggio positivo, di pace".
Poche ore dopo, una telefonata anonima annunciò che il tentato rapimento aveva lo scopo di attirare l'attenzione sull'"ipocrisia della Francia che fornisce materiali militari alla dittatura argentina". Target centrato: il caso Hidalgo finì sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
Infine, l'altra faccia della medaglia, quella nera. Omar Ortiz Uribe detto El Gato, classe 1976, portiere del Rayados de Monterrey in serie A messicana, tra gli antesignani della moda tutta calcistica del tatuaggio integrale. Viene arrestato nel gennaio 2012 per complicità in alcuni rapimenti compiuti da gruppi malavitosi locali affiliati al Cartel del Golfo, a cui avrebbe fornito supporto logistico e passato informazioni. Già squalificato due anni per doping dal 10 maggio 2010 per l'uso di steroidi anabolizzanti, durante lo stop si trasforma in galoppino di una banda criminale dedita al traffico di cocaina - di cui Ortiz è consumatore abituale - e ai sequestri di persona a scopo estorsivo. Per l'accusa, ha partecipato attivamente a una ventina di sequestri ed è accertato che per due di essi abbia intascato un compenso di 200.000 pesos. Incarcerato subito, sta ancora aspettando la sentenza a suo carico.