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Gente di calcio

Storie, ministorie e controstorie dei rimbalzi del pallone

Il Mundial fantasma

L'acerbo logo di Colombia '86, mai rifinito come tutto il resto dell'organizzazione

Il 9 giugno 1974 il gotha della Fifa, riunito a Stoccolma alla vigilia del Mondiale tedesco, assegnò alla Colombia l'organizzazione dell'edizione 1986. Era l'unica candidatura, rispettava la ferrea alternanza Europa-Sudamerica e nessuno dei cugini più blasonati la insidiava: l'Argentina era già incaricata del Mundial '78, Uruguay, Brasile e Cile avevano dato in epoche precedenti, le altre federazioni latinoamericane non avevano le risorse per proporsi. Si spalancò la finestra su un Paese che non solo non aveva mai avuto un simile onore, ma addirittura era calcisticamente insignificante: la nazionale non aveva mai brillato e si era qualificata una sola volta al torneo iridato, nel 1962, venendo subito eliminata. Di più: la Colombia non aveva neppure mai ospitato la Copa America. La scelta della Fifa fu uno choc, né più né meno.

I mammasantissima. Com'era arrivata la marginale Colombia a quell'incredibile affermazione politica? Grazie agli intrallazzi di un eccentrico mecenate e di due presidenti della repubblica disposti a tutto pur di firmare una pagina storica, foss'anche con l'inchiostro simpatico. Il primo artefice si chiamava Alfonso Senior Quevedo, era un uomo d'affari di Barranquilla, presidente della federcalcio e patron dei Millonarios, la leggendaria squadra di Bogotà che, sfidando le regole vigenti, negli anni '50 aveva ispirato un clamoroso scisma. Sulla spinta del club della capitale era nata una federazione parallela e aveva destato scalpore l'ingaggio a peso d'oro di fuoriclasse assoluti come gli argentini Di Stefano, Pedernera e Rossi: vicenda che aveva provocato la scomunica della Fifa, sicché per diversi anni, dal '49 al '57, il calcio del Paese si era dato alla macchia, escluso dai consessi ufficiali. I capi di stato coinvolti nell'impresa erano Carlos Llera Restrepo, in carica dal 1966 al '70, e il suo successore Misael Pastrana Borrero, a Palacio de Narino tra il 1970 e il '74.

Andò così: nella primavera del '66 Senior, un po' sognatore e un po' ambizioso, suggerì al candidato alla presidenza Lleras di avanzare la candidatura, trovandone il consenso interessato. Lleras fece di quest'idea un cavallo di battaglia in campagna elettorale e vinse le elezioni. Fece i primi passi ufficiali, poi lasciò il testimone al successore Pastrana, che produsse il dossier vincente per mancanza di rivali. Fu un'assegnazione sulla fiducia, posto che la Colombia dei primi anni Settanta era un Paese povero e arretrato, in cui mancava tutto, a partire da infrastrutture elementari come strade e ferrovie, per tacere degli stadi. Pastrana aveva nel cassetto un mirabolante programma di opere pubbliche, investimenti - anzi, debiti - ingenti che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto finalmente favorire la prosperità. Il resto lo fece Joao Havelange, brasiliano che per scalzare il vecchio Stanley Rous dalla poltrona più alta della Fifa aveva bisogno dei voti delle federazioni meno rappresentative: un Mondiale nel terzo mondo era il biglietto da visita ideale.

Il gap da colmare. Ottenuta la storica investitura, la Colombia aveva ben 12 anni di tempo per colmare il gap tra quanto esisteva e quanto serviva per fare un buon Mondiale. Poco o tanto che fosse, non ci provò nemmeno. Il passo si rivelò ben presto più lungo della gamba, anche perché nel frattempo cambiarono quasi tutte le condizioni in cui era maturata la bizzarra scelta della Fifa.

Il presidente Pastrana perse il potere due mesi dopo, trombato alle nuove elezioni e punito per le malversazioni di cui si era reso colpevole: delle magnifiche sorti e progressive che propugnava non restava che il ricordo. Il Paese conobbe un lungo periodo di instabilità, con punte drammatiche e sanguinose quando, profittando delle ampie maglie di governi fragili, entrarono in scena i potentissimi cartelli del narcotraffico da un lato e i gruppi di guerriglieri dall'altro, facendo della Colombia uno dei posti più violenti al mondo. E la stessa Coppa del Mondo aveva assunto altre dimensioni, allargandosi a 24 squadre a partire da Spagna '82, mossa di Havelange per aumentare la visibilità di Africa, Asia e Nordamerica: ovvie le accresciute esigenze logistiche e tecniche del carrozzone.

Se nel 1974, nonostante la sorpresa, pochi dubitavano della Colombia, col passare degli anni l'assenza di progressi concreti fece arricciare molti augusti nasi della Fifa. Il segno più visibile dello sforzo colombiano - per non dire l'unico - fu la creazione di una brutta mascotte, grezza e anonima, che in teoria avrebbe dovuto richiamare l'orgoglio nazionale del caffè, ma suscitò più sconcerto che altro. Intanto, ufficialmente il teatrino non si fermava: durante la finale di Madrid, l'11 luglio 1982, sulle tribune del Santiago Bernabeu campeggiava un enorme striscione promozionale di Colombia '86 finanziato dal colosso Banco de Colombia, che nell'occasione sponsorizzò e diffuse oggettistica dedicata. Il coinvolgimento dei privati parve dare una scossa positiva, ma il fumo continuava a superare di gran lunga l'arrosto.

L'ultimatum di Neuberger. Havelange si fidava di Senior e delle sue rassicurazioni, ma cominciò ad avere i brividi quando, proprio durante il Mundial spagnolo, l'amico colombiano gli disse che il Paese ce l'avrebbe fatta solo se si fosse tornati alle 16 squadre. Il potente vice di Havelange, il tedesco Hermann Neuberger, spazientito, usò concretezza tutta teutonica: ai primi di ottobre dello stesso 1982 recapitò al governo di Bogotà una sorta di ultimatum con una lista di cose da fare, o almeno da impostare, con assoluta urgenza, pena la revoca dell'investitura. In calce alla missiva, una deadline lapidaria: mercoledì 10 novembre.

L'elenco delle richieste della Fifa comprendeva: 12 stadi, di cui 2 da 80mila posti, 4 da 60mila e gli altri da 40mila; un moderno hub di telecomunicazioni nella capitale; la libera circolazione di tutte le monete internazionali; collegamenti stradali e ferroviari tra tutte le sedi iridate; aeroporti adeguati in ogni città mondiale; più altre agevolazioni per i dignitari della federazione. Molti di questi punti erano nell'agenda di Pastrana dieci anni prima, ma nessuno di essi ormai aveva chances di essere realizzato. L'ultimatum era evidentemente retorico: Neuberger già sapeva la risposta.

Le 99 parole del no. Il presidente della repubblica in carica, Belisario Betancur Cuartas, capì subito che il castello di carte stava crollando. Non c'erano capitali sufficienti, e quelli che giravano erano già avviati al lucroso e illegale deposito nei paradisi fiscali. In poco meno di quattro anni era impossibile accontentare la Fifa. Riunì il suo gabinetto, ascoltò ministri e tecnici e poi - il 25 ottobre - pronunciò un celebre discorso di 99 parole, non una di più e non una di meno.

Parlò al Paese e disse esattamente così: "Come preserviamo il bene pubblico, come sappiamo che il rifiuto è imperdonabile, annuncio ai miei compatrioti che la Coppa del Mondo 1986 non sarà disputata in Colombia, previa consultazione democratica sui nostri veri bisogni. Non si è compiuta la regola d'oro, per cui il Mundial dovrebbe servire alla Colombia, e non la Colombia alla multinazionale del Mondiale. Qui ci sono altre cose da fare, e non abbiamo il tempo per affrontare i capricci della Fifa e dei suoi partner. García Márquez ci compensa pienamente la vetrina che perdiamo con la Coppa del Mondo". Il Nobel vinto proprio in quei giorni dallo scrittore e il tour nel Paese del mitico Astor Piazzolla distrassero opportunamente l'opinione pubblica dal fallimento calcistico.

Messico, altra sorpresa. La Colombia, così, divenne l'unica nazione ad aver rifiutato l'organizzazione del Mondiale di calcio. Havelange scrollò le spalle, non perse tempo e, a poco più di tre anni dal via, riaprì il bando per l'assegnazione della manifestazione. Un fatto senza precedenti, che trovò una soluzione altrettanto inedita: si aggiudicò la corsa il Messico, primo Paese a fare il bis dopo l'edizione del 1970. C'erano altre candidature: debole quella del Canada, velleitaria quella del Brasile che si ritirò subito; poi c'erano gli Usa, che mossero addirittura Henry Kissinger, noto appassionato di calcio, e testimonial come Pelè e Beckenbauer, che avevano assaggiato il soccer.

Si votò a Zurigo il 20 maggio 1983: quella statunitense era palesemente la proposta più allettante, eppure ebbe la meglio - all'unanimità! - il Messico. Anche qui, motivazioni discutibili: i buoni uffici di un altro faccendiere amico di Havelange, Guillermo Canedo; i soliti voti del terzo mondo spostati a piacimento; e una sorta di ripicca contro gli Usa, "colpevoli" di malsopportate fughe in avanti regolamentari (linea del fuorigioco, shoot-out invece dei rigori in caso di parità) nei propri massimi campionati.

Il Mundial messicano ebbe uno straordinario successo, nonostante il disastroso terremoto del settembre 1985. La Colombia visse quell'assurda parabola come una vergogna nazionale. Il grande calcio vi sbarcò molto dopo: la prima e unica Copa America fu allestita solo nel 2001, e questo sdoganamento dovette passare per mille altre crune d'ago, a cominciare dalle gravi commistioni tra club e narcos (emblematico il caso del Nacional Medellin, che con i soldi sporchi del superboss Pablo Escobar arrivò anche a vincere la Libertadores) e dalla tragedia di Andres Escobar, ucciso dalla malavita per l'autogol che eliminò la nazionale da Usa '94.

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