Storie, ministorie e controstorie dei rimbalzi del pallone
25 Novembre 2016
Il Brasile tricampeao a Messico '70 è stato probabilmente la squadra più forte di sempre. La maglia numero 20, in quel gruppo di stelle, era indossata da Dario, al secolo Dario José dos Santos, per i tifosi Dadà Maravilha. Il suo nome ai più non evoca nulla: è uno dei tanti campioni che in epoca pre-sbornia televisiva non hanno potuto mostrare in mondovisione il loro talento. Ma Dario, che trascorse in panchina tutte e sei le partite giocate (e vinte) dal Brasile, dal debutto del 3 giugno a Guadalajara con la Cecoslovacchia alla finale del 21 all'Azteca con l'Italia, non era al Mundial per scelta tecnica dell'allenatore.
Dal riformatorio agli stadi. Dario, classe 1946, arrivò in cima al mondo appena due anni dopo l'esordio nel massimo campionato brasiliano. Nato a Marecial Hermes, sobborgo di Rio de Janeiro, ebbe un'infanzia segnata da povertà e drammi (a cinque anni assistette al suicidio della madre), violenza e delinquenza (rubava in strada per mangiare), a cui mancava però la cosa più comune: il pallone. Lo scoprì ormai adolescente, nel riformatorio di Fenabem, dove cercava redenzione dopo aver visto morire ammazzato il coetaneo compagno di razzie, centrato al collo dal proiettile di un droghiere appena derubato. Lo scoprì e gli cambiò la vita: fu il suo primo colpo di fortuna.
Aveva mezzi fisici debordanti - alto, potente, veloce, stacco portentoso - non supportati da una tecnica inevitabilmente grezza, visto il tardivo accostamento al calcio. Gliela lavorò un po' un maestro a nome Gradim, che lo prese sotto la sua ala al Campo Grande, il club di Rio in cui Dario cominciò a giocare sul serio. Il secondo colpo di fortuna gli capitò il 23 ottobre 1966, quando la sua squadra si esibì al Maracanà contro il Bonsucesso, nell'antipasto del gran derby Fla-Flu: segnò tre gol, la torcida che non lo conosceva gridava semplicemente "Datela al nove!". In tribuna c'era Jorge Ferreira, vicepresidente dell'Atletico Mineiro, che guarda caso era a caccia di un centravanti: lo notò, cominciò a seguirlo e nel 1968, quando aveva già 22 anni, lo portò con sé a Belo Horizonte.
Stacco portentoso, piedi grezzi. Qui il ragazzo scontò un impatto fantozziano - appena dieci minuti al debutto, addirittura meno la volta dopo, quando s'incartò due volte sul pallone e l'allenatore esasperato lo sostituì - e fece praticamente un anno di panchina. Ma poi si ambientò ed esplose: il 2 marzo 1969 l'Atletico ospitò in amichevole la nazionale sovietica e Dario, schierato col numero 9, si prese il lusso di firmare la doppietta della vittoria (2-1), conquistando un pubblico inizialmente perplesso. Finalmente si affermò come bomber dal fiuto del gol più unico che raro, in barba al tocco di palla eternamente grossolano: lo cercavano con cross alti e lui, grazie all'elevazione, di testa era una sentenza. I tifosi gli affibbiarono vari nomignoli: diventò via via Dadà Peito-de-aço (petto d'acciaio), Dadà Beija-flor (colibrì), Rei Dadà e infine Dadà Maravilha, nick che resterà negli annali.
Il 3 settembre 1969 l'Atletico Mineiro si prese il lusso di battere anche la Seleçao: in amichevole allo stadio Mineirao finì 2-1 per il Galo, per i verdeoro segnò Pelè ma il gol decisivo portò proprio la firma di Dario. Uno scivolone che indusse la federazione a stroncare l'abitudine dei test della nazionale con selezioni locali: bando che durerà fino al 2005.
Saldanha schiena dritta. Il Brasile era retto dal 1964 da una dittatura militare di stampo fascista. La Seleçao aveva fallito da campione uscente la spedizione inglese del '66 e preparava la riscossa in Messico. Le qualificazioni, giocate nell'agosto del '69, erano filate via lisce: sei vittorie su sei, con 23 gol fatti e appena due concessi. Il ct Joao Saldanha, ex giornalista molto influente, comunista dichiarato, stava costruendo una gioiosa macchina da guerra destinata a stupire il mondo: si appoggiò ai blocchi di Santos e Botafogo e fece scelte radicali, arrivando a schierare contemporaneamente tanti straordinari "nove e mezzo" (Pelè, Tostao, Gerson, Rivelino, Jairzinho), rinunciando al centrattacco puro. Ne uscì uno squadrone mostruoso.
Peccato che al generale Emilio Garrastazu Medici, leader della giunta e presidente della repubblica dal 30 ottobre 1969, piacesse da matti proprio Dario, snobbato regolarmente da Saldanha per motivi tattici, certo, ma anche a causa dei vistosi limiti tecnici. Quando il selezionatore annunciò con mesi d'anticipo i 22 convocati per il Mundial, e non citò l'idolo del presidente, firmò ignaro la sua condanna.
Medici imbastì una campagna, prima discreta e poi plateale, per convincere il ct a dare spazio al suo pupillo: invano. Saldanha tenne la schiena dritta e rispose picche, pure in modo colorito: "Lui non mi ha interpellato quando doveva scegliere i ministri, perché dovrei farlo io per scegliere i giocatori?". La richiesta dell'illustre tifoso non era campata per aria, poiché si trattava del goleador del momento: ma, al di là dei piedi quadri, un soggetto con simili caratteristiche non era compatibile con l'impianto tattico della nazionale in fieri, che così com'era funzionava a meraviglia ed era senza dubbio la principale candidata al titolo mondiale.
Joao Havelange, presidente della federcalcio brasiliana e futuro numero uno della Fifa, politicante consumato, fiutò l'aria e non ci pensò due volte a far contento il dittatore: il 17 marzo 1970, a meno di tre mesi dal campionato del mondo, nel bel mezzo di un'intensa tournée amichevole, silurò senza troppi salamelecchi Saldanha, prendendo la scusa del deludente 1-1 nel test informale col Bangu, in cui i verdeoro avevano evitato il ko grazie a un autogol. Dopo aver pensato a Dino Sani, Havelange affidò la panchina della Seleçao al 39enne Mario Zagallo, iridato nel '58 e nel '62 da giocatore, tecnico del Botafogo, già in sella per un paio di partite nel '67 e nel '68.
Nel giro, ma da spettatore. Zagallo ringraziò, s'insediò e per prima cosa convocò Dario: il centravanti dell'Atletico Mineiro debuttò in nazionale il 12 aprile al Maracanà, titolare nel match col Paraguay finito 0-0. La settimana dopo il nuovo arrivato siglò una doppietta nel test ufficioso con la selezione del Minas Gerais, zeppa di compagni dell'Atletico, e disputò quasi tutte le prove generali del Mundial. Saldanha commentò che la sua uscita di scena e l'ingresso di Dario nel gruppo erano farina del sacco del presidente, e il giocatore, un po' piccato e un po' irruento, gli diede pubblicamente del vecchio rimbambito.
Quando fu ora di fare sul serio, però, Zagallo - che era sì uomo di mondo, ma tutt'altro che stupido - tornò sui suoi passi e schierò l'undici già abbozzato dal predecessore, evidentemente il migliore possibile. Dario, con la sua maglia 20, vinse il titolo senza mai giocare, con buona pace di Medici.
Dopo quella stucchevole vicenda, il campione del mondo Dario tornò brevemente a vestire la maglia della Seleçao nel 1972, ma di fatto uscì dal giro con la stessa rapidità con cui vi era entrato. Eppure ebbe un'eccellente carriera, fatta di molte maglie (ben 16, tornando per tre volte all'Atletico Mineiro) e altrettanti successi. Mise in bacheca due titoli brasiliani (Atletico 1971 e Internacional Porto Alegre 1976, sempre segnando il gol-scudetto) e sei campionati statali. Il tutto condito da cinque titoli di capocannoniere e un conto finale dei gol arrivato alla sensazionale quota 926, inferiore in patria solo ai grandissimi Pelè, Friedenreich, Tulio e Romario. Chiuse col calcio giocato nel 1986, a quarant'anni, con il Comercial de Registro, squadretta di San Paolo. Parlò sempre coi gol, nella buona e nella cattiva sorte: ne fece tre all'indomani della morte del padre, nel '67, e due nel classico derby col Cruzeiro, nel '79, due giorni dopo la prematura scomparsa di uno dei suoi gemellini appena nati.
Sull'affaire Medici-Saldanha, Dadà-Dario disse: "Avevo fatto 69 gol in 40 partite, meglio di Pelè. Ero in una fase esuberante, tutti chiedevano la mia convocazione ma Joao non mi voleva. Havelange mi raccontò che il presidente aveva mandato a dire a Saldanha che dovevo essere chiamato: quando mise al suo posto Zagallo disse "conosco la bestia, merita". Mi spiace sentir dire che il presidente mi ha convocato: ma riconosco che, chiedendo di chiamarmi, mi aiutò molto. Medici, riposa in pace".
Epilogo. Oggi Dario José dos Santos ha 70 anni ed è ospite fisso delle trasmissioni calcistiche televisive brasiliane, dove come sempre sprizza verve e spontaneità da ogni poro, e recrimina un po': "Se giocassi oggi, guadagnerei quanto Neymar". Joao Havelange, scomparso a cent'anni lo scorso agosto, è stato presidente-padrone della Fifa dal 1974 al 1998, portando il Mondiale di calcio nell'era del business. Emilio Garrastazu Medici, capo dello stato dal 1969 al 1974, è ricordato come il dittatore più duro della storia recente brasiliana: finito il mandato ha abbandonato la scena pubblica fino alla morte, sopraggiunta nel 1985. Mario Zagallo ha vinto Messico '70, ha lasciato la nazionale all'indomani del flop tedesco del '74 e, nel lungo e danaroso girovagare per i campi del mondo, ha guidato in altri momenti la Seleçao: cerchio chiuso diventando tetracampeao come direttore tecnico di Parreira a Usa '94. E Joao Saldanha? Riprese a fare il giornalista senza peli sulla lingua, temuto e rispettato; si candidò alla viceprefettura di Rio nelle liste comuniste, nel 1985; e morì a Roma, dove si trovava per seguire il Mondiale italiano, il 12 luglio 1990.
Guarda i gol di Atletico Mineiro-Brasile del 3 settembre 1969
Guarda il gol decisivo della finale scudetto Atletico Mineiro-Botafogo del 1971
Guarda una trasmissione brasiliana dedicata a Dadà Maravilha
Guarda il Brasile campione del mondo 1970