29 Settembre 2017
Il Clàsico non ha bisogno di didascalie: Real Madrid-Barcellona è la partita che più di ogni altra solletica passione su scala planetaria. Attualmente si tratta delle due società più forti, vincenti, famose e mediatiche del mondo, ma anche in passato - quando tv e sponsor non facevano né la fila né i ponti d'oro - non c'era sportivo che non ne fosse attratto.
Pochi sanno però che, in realtà, si tratta di una rivalità relativamente recente. Esplosa solo alla fine degli anni '30 del secolo scorso, quando, esaurita la guerra civile, la dittatura di Francisco Franco cominciò a reprimere senza salamelecchi l'opposizione, a cominciare dalle istanze autonomiste di Catalogna, Paesi Baschi e Galizia. Per ironia della sorte, in quel periodo la squadra-guida veniva proprio da quelle periferie ribelli: dominava l'Athletic Bilbao. Il Madrid, considerato espressione del potere centrale, aveva vinto l'ultima Liga nel 1933 e si sarebbe ripetuto solo nel '54, dopo un digiuno ventennale appena lenito da qualche coppetta.
Politica e pallone. Real Madrid-Barcellona era dunque una partita come le altre, solo un po' pepata dalle rivendicazioni politiche. Le cose cambiarono in occasione di una semifinale della Coppa del Generalissimo, versione franchista della Coppa del Re. Fu lì che Real-Barça divenne il Clàsico, quello che contrappone potere e popolo, centro e periferia, statalismo e autonomia, nobiltà e borghesia, oppressione e libertà: la data precisa è domenica 13 giugno 1943.
La manifestazione, a eliminazione diretta in doppia gara, era iniziata il 24 aprile: in lizza 32 squadre di prima, seconda e terza divisione. Il Madrid, decimo e salvo per un solo punto in campionato, aveva raggiunto la semifinale con qualche patema: eliminato facilmente il Salamanca, aveva avuto bisogno dello spareggio per superare l'Espanol, dopo due drammatici pareggi; e nei quarti si era liberato del Jerez. Il Barcellona, terzo in Primera Division alle spalle di Bilbao e Siviglia, aveva vinto largamente tutte le partite con Levante, Celta Vigo e Ceuta.
La gara d'andata si disputò domenica 6 giugno a Les Corts, lo storico catino blaugrana ribollente di orgoglio catalano: finì 3-0 per il Barça, che quindi aveva un piede e mezzo in finale. Nella settimana tra la prima e la seconda sfida il regime mosse tutte le sue pedine per cambiare un destino segnato.
Le pedine di Franco. La stampa madrilena, capitanata dall'influente giornalista Ernesto Teus, caricò l'ambiente stigmatizzando in chiave politica l'atteggiamento ostile dei tifosi catalani nel match d'andata: si parlò apertamente di maltrattamenti alla comitiva madridista, al punto che, con l'accondiscendenza dei vertici federali, per il ritorno fu vietata la trasferta ai sostenitori blaugrana.
Il pomeriggio della partita, poco prima di scendere in campo, accadde un fatto inaudito: un uomo di Franco, nientemeno che il numero uno della polizia politica, entrò nello spogliatoio del Barça e disse, né più né meno: "Ricordatevi che potete giocare grazie alla generosità del regime, che vi perdona la mancanza di patriottismo". Un messaggio obliquo, raggelante quanto bastava: i barcellonisti si trovarono in condizioni psicologiche allucinanti - chissà cosa poteva capitare a loro e ai loro cari - e pagarono dazio.
La mattanza. Lo stadio Chamartin era una bolgia mai vista, intrisa di madridismo e nazionalismo. Ai tifosi madridisti vennero distribuiti più di ventimila fischietti, che - usati ad ogni tocco di palla nemico - resero la vita impossibile ai giocatori ospiti. Fu una mattanza. Alla mezz'ora il Real aveva già recuperato due gol, all'intervallo era addirittura sull'8-0. Ultimo sopruso, fu necessaria l'irruzione dell'esercito nello spogliatoio per convincere i catalani a disputare il secondo tempo: l'argomento vincente fu la minaccia di sbatterli in galera. Finì 11-1, con quattro centri di Barinaga e tre di Pruden, nel delirio dell'ignaro (forse) pubblico blanco.
Naturalmente un simile bailamme ebbe delle conseguenze. Per il portiere del Barcellona Luis Mirò, traumatizzato, fu l'ultima partita della carriera: si ritirò a soli trent'anni. E i vertici dei due club furono costretti a rinnovarsi per stemperare la tensione: il Barcellona passò al dimenticabilissimo José Antonio Albert Muntadas, il Real al leggendario Santiago Bernabeu. La prima cosa che fecero i nuovi leader fu siglare la pace. Sul campo, con due sfide amichevoli: 1-1 nella capitale, 4-0 di puro orgoglio per i catalani a Les Corts. Bernabeu aggiunse le proprie scuse personali agli arcirivali.
Un giovane cronista, che sul quotidiano La Prensa aveva raccontato l'accaduto senza peli sulla lingua, venne licenziato sui due piedi: si chiamava Juan Antonio Samaranch, sarebbe diventato il potentissimo capo del Cio e un fervente franchista, al punto di fare il ministro dello sport spagnolo durante il regime.
Postilla: nonostante le robuste spinte dall'alto, il Real poi non conquistò la coppa. La finale si giocò domenica 20 giugno 1943 al Metropolitano di Madrid, casa dell'Atletico, sotto gli occhi del caudillo: siccome il destino è burlone, la vinse l'altro baluardo dell'opposizione a Franco, il Bilbao, grazie a un gol del totem Telmo Zarra all'ultimo minuto del primo tempo supplementare.